(Un uomo di età indefinibile, di epoca rinascimentale, con abiti sontuosi ma disordinati, come fosse immensamente ricco ma indifferente alla propria ricchezza. È affaticato, in cattive condizioni fisiche. Sta scrivendo qualcosa, poi raduna i fogli sparsi e comincia a leggerli, prima a se stesso, poi con voce più forte e infine con immenso dolore e voce appena percettibile. Alle sue spalle possono essere evocate in qualsiasi modo le immagini surreali che il racconto suggerisce)
La vicenda, anche se risente delle trasfigurazione letteraria, prende spunto da un fatto realmente accaduto.
IL MERCANTE – C’ero anch’io quando la trovarono fluttuante nel mare, con i capelli sparsi sulle onde… un’aureola immensa intorno al viso velato di alghe.
Indossava la tunica di raso con i bordi in filigrana d’oro di Rodi e perle dell’Aniene, che io stesso avevo fatto tessere e ricamare a Prato, nell’industria laniera di mio padre. Era di un verde indecente, così avevano detto, e il colore ha la sua importanza, dissero ancora, questo un mercante dovrebbe saperlo, perché il senso oscuro e la percezione delle tinte è alla base del suo lavoro, lo sa chiunque, anche un paggio o un biadaiolo o un cambiavalute del porto, dal momento che a non prestare la dovuta attenzione alle cose, queste ci si rivoltano contro e determinano la nostra rovina. Ma lei voleva incontrare il re di Francia con quella tunica smeraldina come il Sacro Catino, ricamata come la croce degli Zaccaria e, per colmo di sacrilegio, tessuta senza cuciture , un abito più adatto a Lucifero quando va di notte a bussare alle porte dei monaci per indurli a peccare.
Quando arrivai a Genova avevo sedici anni, ed ero il potenziale erede di una fiorente compagnia mercantile, sulla cui fortuna si raccontavano storie raccapriccianti, ma a voce così bassa e con sguardi così obliqui che nessuno ne seppe mai niente di preciso. Alle soglie del nuovo secolo a mio padre parve indispensabile avere una base là dove facevano capo le linee di navigazione con la Spagna, il Mare del Nord e i favolosi convogli del Levante ; da me si aspettava che dimostrassi di aver appreso con profitto l’arte della mercatura, riaprendo un vecchio fondaco per la lavorazione e la vendita delle lane francesche, chiuso dopo solo dieci anni di attività per la grave contrazione di affari seguita alla peste del 1400.
Il marchese Spinola, vecchio amico e debitore di mio padre, mi aveva messo a disposizione un’ala del suo sontuoso palazzo, ma io mi smarrivo di malinconia in quelle stanze affondate tra i carruggi, soffocate dai vapori del porto e smaniavo nel ricordo della bella casa fiorentina, calda di sole e percorsa da brezze profumate.
Di notte, poi, mi sembrava che sospiri spaventosi si levassero dalle più oscure profondità della casa e, strisciando sugli stucchi dorati dei muri, arrivassero fino a me ansando e cigolando, per guardarmi in silenzio, traditi solo da un lieve odore di mare e di decomposizione. Fantasie, certo, così diceva anche il mio segretario Falduccio, ma qualche notte rimanevo a dormire nel mio fondaco al porto, cullato dal profumo materno delle balle di lana, assediato solo da uno stuolo di prostitute colorate e insolenti, attratte dalla mia malinconia e dal mio corpo glabro, inusuale per loro, da sempre abituate ai marinai greci e levantini. Tornavo prima dell’alba, attraversavo come un’ombra i saloni bui e silenziosi fino a raggiungere le mie stanze, ancora più buie e silenziose, sperando che nessuno si accorgesse di quell’andirivieni che sarebbe stato penoso giustificare.
(pausa)
Ma una notte la vidi, china sulla grande vasca del giardino, bagnata e luminescente come la Vergine bianca dei morti affogati. La vidi perché guardai in una direzione diversa dalle solite di ogni notte, forse era sempre stata lì senza che ne fossi consapevole, perché i giardini, con o senza fontane, non mi attirano in alcun modo, qualunque tipo di giardino con le sue ottuse verzure mi è sempre stato insopportabile e perciò se quella notte la vidi fu solo per uno straordinario e tuttora inspiegabile cambiamento di abitudini. È così che talvolta si insinua il dolore, con uno sguardo diverso, un richiamo o una piccola luce, che il cuore lascia entrare senza sospetto perché non sa riconoscerlo.